Ancora alla ricerca della bellezza perduta

 

 

MONICA LANFREDINI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 14 novembre 2020.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: DISCUSSIONE]

 

Coltivare interiormente la bellezza come dimensione dello spirito sembra essere un esercizio indispensabile per poter trovare, riconoscere e condividere ciò che merita ammirazione e suscita in noi il piacere dell’incanto. Infatti, la riflessione condivisa ci ha portato a notare che il difetto nella realtà umana che ci circonda non consiste tanto in un’oggettiva assenza del bello, quanto in una perdita del suo senso nella coscienza dei singoli, dalla quale deriva la mancanza di desiderio e ricerca. Questo deficit è forse parte della più generale perdita di capacità di attribuire e riconoscere valore, di cui soffre la nostra società che “si agita nella frammentazione del senso, ridotto a una pletora pluralistica di isomorfismi culturali dello stesso frammento egotico e utilitarista, scelto in quanto si adatta perfettamente alla tendenza generale e globale a mercificare e monetizzare oggetti, persone e sentimenti”[1].

La scorsa settimana, concludendo le considerazioni su chi cerca la bellezza ma non la trova come il protagonista del film di Paolo Sorrentino, ho sottolineato la necessità di una mediazione attiva fra il bello e il soggetto, perché ciò che si vede non rimanga intransitivamente lontano dal vissuto di chi osserva: “…ma anche tutti gli altri monumenti e le altre opere d’arte del mondo, richiedono che qualcuno riconosca e mostri la loro bellezza: perché se la forma è svuotata della sostanza costituita dall’attualità umana che le dà vita, si riduce a simulacro di sé stessa”[2]. Infatti, come si diceva in apertura dello scritto: “La bellezza esiste se qualcuno la riconosce e, con la sua ammirazione e il suo rispetto, la indica agli altri, consentendo alla facoltà di vederla nelle persone e nel mondo, insita nel cervello, di rivelarsi”[3]. E, più avanti, si parlava della carenza ai nostri giorni di testimoni di bellezza, ossia di modelli che ne indichino con la propria vita la pratica virtuosa. Non era così due secoli fa, quando testimoni e interpreti abbondavano nel vecchio continente, gli idoli della maggioranza erano artisti e letterati cultori del bello, e in ogni famiglia c’era qualcuno che si cimentava nella poesia, nella pittura e nella musica.

John Keats, il poeta della bellezza, aveva compreso e idealizzato la concezione dei Greci, diventandone interprete esemplare nella sua personalissima versione romantica che poneva il nucleo della sensibilità etico-estetica al cuore della spiritualità e della vita. In poesia aveva avuto come modelli di stile e tecnica Edmund Spenser[4] e William Shakespeare, ma la sua ispirazione era profonda, genuina e sentita: la passione per ciò che suscita ammirazione non è in lui, come in George Gordon Lord Byron e in altri romantici, l’approdo culturale di una sensibilità educata, ma una pulsione profonda, che costantemente combatte il fantasma della morte e si esprime come bisogno di vita[5].

Il particolare atteggiamento psicologico di Keats nel suo amore per la dimensione dell’incantevole si comprende alla luce della sua sensibilità emozionale per la bellezza, veramente fuori dal comune ed efficacemente resa nelle celebri parole di Ernest de Sélincourt: “Nulla gli sfuggiva. Il ronzio di un’ape, la vista d’un fiore, lo splendore del sole sembravano far vacillare la sua stessa vita: l’occhio gli si accendeva, gli si colorivano le guance, le labbra gli tremavano”.

All’epoca, quando un giovane sentiva parlare con toni lusinghieri di una fanciulla che viveva lontano, era costume, presso borghesi, nobili e popolani che potessero permetterselo, di ordinare un ritratto e, se il ritratto non deludeva le attese, il giovane componeva versi che faceva pervenire alla fanciulla, sperando di ottenerne un invito. Se si pensa alla recente inchiesta che ha rivelato la diffusione massiccia nelle città italiane della prostituzione mediata da webcam fra le studentesse adolescenti[6], si comprende quale differenza di civiltà vi sia fra i giorni del Poet of Beauty e il degrado attuale[7]. Il rapporto fra uomini e donne è un cardine della socialità: concepirlo nella bellezza vuol dire fondarlo nel rispetto, ridurlo a sessualità mercificata vuol dire minarlo dalle fondamenta. Anche nel rapporto con la terra, con l’ambiente naturale che ospita quello antropizzato, far prevalere la dimensione della bellezza vuol dire imparare il rispetto.

Keats è stato, tra i poeti moderni, il primo a trarre ispirazione da opere d’arte figurativa, dalla scultura greca a Tiziano e Claude Lorrain, autore di incantevoli paesaggi e caposcuola del genere paesaggistico con Poussin, altra grande passione del poeta inglese. I marmi di Fidia, detti di Elgin[8], ispirarono Ode on a Grecian Urn (Ode su un’urna greca), nella quale compaiono i versi più citati per rendere l’essenza del pensiero del giovane letterato: La bellezza è verità, la verità bellezza, questo è tutto ciò che tu sai sulla terra e tutto quanto hai bisogno di sapere[9].

Versi che si comprendono meglio alla luce di quanto Keats scrive all’amico Benjamin Bailey in una lettera del 22 novembre 1817: “Di niente sono più sicuro della sacralità degli affetti del Cuore e della verità dell’Immaginazione – Ciò che l’immaginazione afferra come Bellezza deve essere verità – sia che sia esistita prima che no…L’Immaginazione può essere accostata al sogno di Adamo – lui si svegliò e trovò che era vero”[10].

Una sorta di religione della bellezza che, con poetica grazia e romantica estremizzazione, propone l’ideale del buono soddisfatto dal bello come in una platonica kalokagathίa (lett.: bellezza-bontà) della Grecia antica, di cui ho detto nell’articolo precedente[11]. Arthur Schopenhauer, nato sette anni prima di Keats, aveva conosciuto Goethe, che abbiamo citato spesso in passato per la sua concezione della bellezza, e aveva sviluppato la sua filosofia estetica ammirando gli stessi artisti e le stesse opere amate dal poeta inglese. Schopenhauer ne Il mondo come volontà e rappresentazione, dato alle stampe nel 1819 quando Keats pubblica Ode su un’urna greca, indica l’obiettivo della pittura: “Ottenere la conoscenza di un oggetto, non come cosa particolare, ma come idea platonica, cioè come forma permanente di tutta quella specie di oggetti”[12]. In altre parole, una conoscenza che conferisce priorità al valore esemplare estetico, in un ordine connotativo di una classe (“quella specie di oggetti”) rispetto alla fedeltà riproduttiva secondo il criterio denotativo di quel particolare oggetto[13].

È più di una semplice suggestione rilevare che, trecento anni prima, questa idea neoplatonica professata dall’Accademia fiorentina era perfettamente interpretata da Michelangelo Buonarroti che, criticato dai concittadini per la scarsa somiglianza nel viso delle due statue di Giuliano e Lorenzo de’ Medici poste sulle Tombe Medicee della Sagrestia Nuova di San Lorenzo, ebbe a dire: “Tra mille anni, chi ricorderà l’aspetto dei Medici?”[14]. Michelangelo aveva scolpito quei capolavori per farne esemplari di bellezza imperitura, mettendo la sua arte al servizio dell’umanità e non del committente, come faceva comunemente il ritrattista.

L’elemento comune dell’ideale neoplatonico di bellezza consente di accostare due artisti così radicalmente diversi: Michelangelo, massimo interprete dei valori cristiani in pittura, che portava sempre con sé al lavoro nella fabbrica di San Pietro la Bibbia e la Divina Commedia, era un uomo volitivo, energico e coraggioso; Keats, che cercava nella creatività quella protezione dalla paura della morte[15] che non aveva trovato nella fede religiosa, nella sua insicurezza ontologica considerava spesso le sue opere dei semplici tentativi inadeguati e reagiva alle frustrazioni isolandosi, come accadde quando, da innamorato respinto della giovanissima Fanny Brawne, si “ritirò nel monastero della sua immaginazione”[16].

È facile dire che oggi un nuovo John Keats non sarebbe possibile, anche se nel cinema Franco Zeffirelli è stato spesso accostato al poeta londinese per la costante ricerca dell’eccellenza nella realizzazione estetica, sia pure con la differenza non marginale di contrapporre la sua concezione neoplatonica della spiritualità cristiana all’idolatria del bello emergente dal classicismo romantico di Keats.

Menzionato Zeffirelli, non si può fare a meno di soffermarsi sull’opera in cui il regista ha realizzato nel modo più compiuto la sua concezione spirituale ed estetica di bellezza, il Gesù di Nazaret[17]. Prodotto inizialmente come miniserie televisiva nel 1977, l’anno seguente divenne un film di quattro ore apprezzato in tutto il mondo, dal quale sono stati estratti fotogrammi impiegati a modello per opere di pittura iper-realistica: celebre il volto di Robert Powell (Gesù) che volge lo sguardo al cielo, diventato un olio su tela presente in varie chiese. Ogni inquadratura di questo lavoro è stata accuratamente studiata, come se fosse la composizione di un quadro della migliore tradizione figurativa, ogni atteggiamento, moto, postura e accento degli attori è stato curato per coniugare la maggiore naturalezza possibile dei personaggi con la massima fedeltà al testo evangelico[18]. Il Gesù di Nazaret ebbe un cast d’eccezione: accanto a Robert Powell e Olivia Hussey (Gesù e Maria) Laurence Olivier, considerato il miglior attore di prosa del mondo, nei panni di Nicodemo, Peter Ustinov era Erode, Antony Quinn Caifa, Claudia Cardinale interpretò l’adultera perdonata, Renato Rascel il cieco guarito, Valentina Cortese Erodiade, Rod Steiger Ponzio Pilato, Regina Bianchi Sant’Anna, Anne Bancroft Maria Maddalena, Maria Carta Marta, Ernest Borgnine un centurione romano, Michael York Giovanni il Battista, e tanti altri.

Nel Gesù di Nazaret la spiritualità è bellezza, e i contenuti si pongono in aperto contrasto con i due surrogati del bello platonico tipici della rappresentazione cinematografica di ieri e di oggi: l’avvenenza e il lusso.

L’ottica della classificazione merceologica impone che questi contenuti siano confinati nel genere religioso, ossia in un prodotto destinato ad uno specifico target di credenti. Un genere che si è evoluto nel tempo ma ha conservato alcuni elementi tradizionali, a partire dal soggetto che si può riportare a due prototipi principali: o si tratta di storia antica o di biografie di santi[19]. Storia antica, come quella del popolo ebraico, spesso narrata seguendo racconti biblici tratti dal Vecchio Testamento, attraverso chiavi di lettura differenti ma pur sempre con l’impronta di ciò che appartiene al passato. Biografie di santi di ogni epoca, fino ai nostri giorni, a volte con la rappresentazione di una quotidianità semplice e attuale, ma inquadrata nel presupposto della santità che, oltre ad essere ritenuta dalla maggioranza dei cristiani una qualità eccezionale e inarrivabile, costituisce un elemento che allontana atei, agnostici, scettici e credenti di varie religioni, inclusi i cristiani di confessione diversa da quelle ortodossa e cattolica.

Nella cinematografia che narra il presente, difetta una rappresentazione della realtà così com’è, e nella quale vi sono, si, persone che soddisfano i desideri sessuali come fossero bisogni alimentari e non sanno dire tre parole di fila senza intercalare parolacce[20], ma ve ne sono anche altre, mai rappresentate, che hanno una precisa concezione morale della sessualità e rifuggono la volgarità, e altre ancora che vivono il piacere di un’integrità interiore che le porta spontaneamente ad esprimere bellezza nella parola e negli atti che compiono, facendo della propria vita quasi un’opera d’arte misconosciuta.

In realtà, negli ultimi decenni, ma già a partire dagli anni Settanta secondo alcuni studiosi del settore, la quotidianità dei rapporti interpersonali e dei comportamenti sociali rappresentata dal cinema sembra essere prodotta da una lente deformante che ingigantisce alcune parti – sempre le stesse – e ne rimpicciolisce altre – sempre le stesse – fino a farle scomparire del tutto. In tal modo, si è determinata, attraverso l’influenza sulle platee di spettatori, un’amplificazione sociale dovuta a emulazione della realtà rappresentata da parte di molti e ad accettazione della volgarità da parte dei rassegnati.

D’altra parte, la dimensione del bello è stata coltivata attraverso i secoli della storia occidentale dall’arte sacra.

Per comprendere il rapporto con le immagini sacre dei cristiani, che in questo si differenziano da tutti gli altri seguaci della tradizione che risale a Mosè, padre delle tre fedi monoteiste, è necessario fare un rapido salto nel passato, quando il timore di peccare creando immagini attanagliava e inibiva ogni slancio artistico. L’esegesi cristiana, alla luce dell’insegnamento evangelico, evidenzia gli errori di una pedissequa osservanza letterale rigida ma superficiale.

Come ricordava Giovanni Paolo II: “La Legge dell’Antico Testamento presenta un esplicito divieto di raffigurare Dio invisibile ed inesprimibile con l’aiuto di «un’immagine scolpita o di metallo fuso» (Dt 27, 15) perché Dio trascende ogni raffigurazione materiale: «Io sono colui che sono» (Es 3, 14)”[21]. Il divieto deriva dal costume antico di creare degli idoli e identificarli con la divinità, attribuendo a quei manufatti poteri sovrannaturali o magici. JHVH è l’Essere per eccellenza, autore di tutto ciò che esiste, pertanto non può essere rappresentato perché non raffigurabile, ma soprattutto perché deve essere inteso come sostanza immateriale, e come tale deve essere amato. Per l’uomo, Dio deve identificarsi con i suoi comandamenti, come legge scolpita nel cuore, non con una forma della materia organica o inorganica. È peccato creare un idolo per adorarlo, non è un male usare immagini per predicare la parola del Signore. Ma, vediamo come si sviluppa il pensiero della Chiesa dalle origini.

Agostino di Ippona chiarisce che il male è prodotto dalla libertà dell’uomo che da solo non è in grado di scegliere il bene se non sotto l’influenza della grazia. Interpretando San Paolo, Sant’Agostino ritiene che la grazia sia concessa da Dio solo a coloro per i quali è stata predestinata la salvezza. Questa concezione è ripresa da Martin Lutero e Giovanni Calvino e posta alla base della riforma protestante.

Si comprende facilmente come un’interpretazione restrittiva di questo ciclo chiuso fra Dio e gli uomini prescelti potesse indurre al fatalismo. Infatti, prevalentemente fra i religiosi che avevano aderito alla riforma, ma anche fra i più tradizionalisti della confessione apostolica romana della Chiesa presieduta dal Papa, coloro che erano convinti che l’uomo non potesse convertire, né con la predicazione né con altri mezzi, il prossimo non destinato da Dio alla salvezza, erano anche i meno propensi ad impiegare lo strumento della bellezza artistica per la diffusione della fede.

Di fatto, per gli artisti, le sacre scritture hanno costituito una fonte inesauribile di ispirazione, un potenziale repertorio di fatti e personaggi più ricco della mitologia greca e, soprattutto, più denso di sentimenti ed emozioni, e, forse, la difficoltà di oggi nel comprendere e rendere attuale la bellezza prodotta dallo straordinario connubio del passato tra arte e fede ha origine proprio, in questa umanità cinica, dall’inaridimento della fonte interiore dei sentimenti più alti, profondi e veri di cui è capace l’animo umano.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invitano alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Monica Lanfredini

BM&L-14 novembre 2020

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Giuseppe Perrella, comunicazione nel corso del Seminario sull’Arte del Vivere del marzo 2018.

[2] Note e Notizie 07-11-20 Alla ricerca della bellezza perduta.

[3] Giuseppe Perrella, La bellezza: essenza di un valore che supera le concezioni ideali, p. 5, BM&L-Italia, Firenze 2019-2020 [Testo di un discorso introduttivo per un incontro non più tenuto, causa coronavirus].

[4] La sua prima opera poetica fu Imitation of Spenser.

[5] È facile riconoscere nella sua biografia un valore psicoadattativo al vivere di bellezza, per neutralizzare il brutto assoluto dell’assenza di vita. Keats, rimasto orfano di padre, perse anche la madre a 15 anni di tubercolosi, malattia che lo lascerà in vita per altri dieci anni, anche se sofferente, prima di portarlo a morte a soli 25 anni. È curioso notare che in molte biografie che si trovano in rete è riportato l’errore di Wikipedia, ossia che Keats sia stato medico e abbia poi abbandonato la medicina: non ci sarebbe stato il tempo nella sua breve vita! In realtà non ebbe mai un’istruzione universitaria (Elio Chinol, op. cit.); nel 1815 si iscrisse a Londra fra gli studenti di medicina per poter apprendere da un chirurgo di Edmonton i rudimenti sui farmaci ed ottenere un certificato per fare pratica da farmacista (apothecary practitioner), ma l’anno dopo stava già lavorando al suo primo volume di poesie, pubblicato con l’aiuto di Shelley.

[6] Cfr. La prostituzione ignorata delle adolescenti di famiglie istruite e benestanti: cosa accade in Italia? (Note e Notizie 10-10-20 Notule): “…una ragazza diciottenne di una grande città italiana che aveva cominciato a prostituirsi in questo modo a quindici anni, e riferiva di conoscere centinaia di ragazze del suo quartiere che esercitavano lo stesso tipo di attività e diceva che, quando ha cambiato residenza, ha trovato la stessa diffusione. Dopo lo scambio mediatico, se il ragazzo non è sgradito, avvengono incontri reali con rapporti sessuali a pagamento”.

[7] Nel corso di un’indagine sociologica fra i giovani condotta per scopi diversi è emerso che quasi il 90% per “bellezza” intendeva esclusivamente “attrattiva sessuale”.

[8] Sono i marmi del Partenone di Atene, acquisiti nel 1803 con un regolare contratto dal diplomatico britannico Lord Elgin che li portò al British Museum per sottrarli agli Ottomani che avevano conquistato la Grecia. A febbraio di quest’anno il governo inglese si è pronunciato contro la restituzione delle opere.

[9] Elio Chinol, Masters of English Literature, p. 428 [TdA], Liguori Editore, Napoli 1981.

[10] Elio Chinol, op. cit., p. 428-429 [TdA]: le maiuscole sono di Keats.

[11] Note e Notizie 07-11-20 Alla ricerca della bellezza perduta.

 

[12] Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione (a cura di G. Riconda), §38, Mursia, Milano 1991.

[13] Come non pensare al valore esemplare e di prototipo degli splendidi paesaggi di Claude Lorrain, copiati e imitati da generazioni di paesaggisti fino ai nostri giorni?

[14] Cfr. Charles de Tolnay, The Medici’s Chapel, Princeton University Press, Princeton 1948 [TdA].

[15] Esemplare la poesia The terror of death, che comincia col celebre verso When I have fears that I may cease to be… [The World’s Great Classics, Great Poetry of the English Language, Book IV, p. 291, Grolier, Danbury & New York 1971].

[16] Elio Chinol, op. cit., p. 428 [TdA].

 

[17] Negli USA TV Guide lo definì “la migliore serie televisiva di tutti i tempi”. Accoglienza entusiastica la ebbe anche il film. La fama internazionale di Franco Zeffirelli era però di molto antecedente: La bisbetica domata (1967) e Romeo e Giulietta (1968), due trasposizioni shakespeariane, furono ritenute autentici capolavori. In precedenza, nel 1964, aveva diretto in teatro, a Londra, per la celebrazione del quattrocentesimo anniversario della nascita di Shakespeare, l’Amleto, interpretato da Giorgio Albertazzi. Nel 2004, 40 anni dopo, la regina Elisabetta II lo nomina Cavaliere Commendatore dell’Ordine dell’Impero Britannico (KBE).

[18] La popolarità di Zeffirelli è calata con le scelte politiche della maturità. Da giovane aveva espresso una forte tensione antifascista e una profonda spiritualità cristiana, anche direttamente ispirate da Giorgio La Pira, e il desiderio di libertà, intesa come possibilità di creare bellezza e comunicare con sincerità, lo ha contraddistinto fino ad età matura. Poi l’adesione a Forza Italia, che ha rappresentato come Senatore della Repubblica, gli ha alienato le simpatie di gran parte degli intellettuali, degli artisti e dei critici italiani.

[19] Fanno eccezione i capolavori, come La Passione di Cristo di Mel Gibson (2004), ma si tratta di un numero limitatissimo di opere che il pubblico attende anche molti anni, contro la media di 2.577 film prodotti all’anno, secondo l’autorevole stima della IMBD.

[20] La questione dell’eccesso di espressioni volgari nel cinema italiano è stata affrontata in passato più volte dal linguista britannico Crispin Mason, che ha denunciato il “dirty dubbing”, cioè il doppiaggio sporco, nelle versioni italiane di film americani e inglesi. È comune la resa di termini inglesi di gergo comune, ossia non considerati “term of abuse”, con parolacce italiane o, anche, la deliberata alterazione di espressioni. Ad esempio, in un film la giovane e timida protagonista confessa di non essere estroversa, che in inglese si rende con “to put it out”, ossia una che non esterna il pensiero; nel doppiaggio italiano dice: “Non sono una che te la sbatte in faccia”, con una chiara allusione al genitale esterno femminile. In qualche caso, questo doppiaggio sporco ha alterato la resa dei personaggi: nei film in cui sono stati caratterizzati gli interpreti di uno o più ruoli con un lessico volgare pieno di espressioni gergali di realtà delinquenziali, nel doppiaggio italiano che ha messo in bocca parolacce anche agli altri attori che usano un frasario da persone civili, si perde la differenza dell’originale.

[21] Giovanni Paolo II, Lettera di Giovanni Paolo II agli artisti, §5: L’arte davanti al mistero del Verbo Incarnato. Libreria Editrice Vaticana, Roma 1999.